mercoledì 28 settembre 2011

Cinque buoni motivi per..

Martedì tardo pomeriggio Torno dal lavoro con tutta la voglia di rilassarmi nel modo più statico immaginabile. Ma una emergenza domestica mi attende e su delega ad personam da parte della Mari, mi ritrovo catapultato da Media World, reparto aspirapolveri. Dopo una verifica delle caratteristiche tecniche e della fascia di prezzo, individuato il modello che mi sembra adatto alle nostre esigenze, chiamo l'addetto al reparto per chiedere qualche informazione aggiuntiva. Il giovane dall'aria competente conferma il fatto che la mia scelta è ricaduta proprio sul modello col miglior rapporto qualità prezzo "che occhio, si vede che lei se ne intende di cose tecniche" è il suo sottointeso commento, prima lezione del corso rapido da venditore di elettrodomestici. Soddisfatto dal rinforzo positivo appena ricevuto chiedo di portare via l'oggetto ma, ahime, mi dice che è appena terminato "quel modello è andato a proprio ruba" e ancora "se vuole.. le posso dare quello esposto". Ecco, ci sono circostanze e situazioni nelle quali si commettono errori che mai e poi mai avremmo immaginato di poter fare. Ma succede anche ai migliori. Portato a casa l'oggetto e fieramente mostrato alla consorte, ha avuto inizio il mio calvario, personale e spirituale. Nella fase di elaborazione del nefasto evento ho deciso di scrivere, a memoria ed utilità futura, i miei cinque buoni motivi per cui non si dovrebbe acquistare mai, e sottolineo mai, l'ultimo oggetto esposto sugli scaffali:

 1. Qualcosa manca sempre. L'elenco dei componenti che dovremmo trovare nella scatola di solito è indicato nella documentazione del prodotto ma non sempre tutte le parti incluse sono specificate con chiarezza. Più spesso le mirabolanti fotografie impresse sulla confezione, quelle che servono ad attrarre il cliente, ritraggono l'oggetto in modo non realistico, aggiungono pose e componenti che non solo non si trovano nella confezione, ma addirittura non sono stati ancora inventati. Il dubbio di non avere tutte le parti, anche quelle che mai e poi mai avremo occasione di utilizzare, ci accompagnerà per tutta la vita.

2. Qualcuno lo ha aperto al posto nostro. Esistono appositi studi su come rendere il prodotto familiare già a partire dall'apertura della scatola e dall'estrazione dei pezzi. E' il cosiddetto unboxing, molte aziende vi fanno ricorso. L'ordine non è casuale ma studiato perchè le parti si presentino con un preciso ordine: il cavo di alimentazione, subito dopo il corpo elettrico dove inserirlo, poi il manico da agganciare al corpo elettrico estratto poco prima, e così via, tutto per rendere user friendly l'oggetto. Ma nulla di tutto accadrà dopo il nostro acquisto disgraziato. Quando il commesso lo riporrà alla bene e meglio nella scatola per farcelo portare alle casse, l'ordine dei pezzi sarà assolutamente casuale, nessuna delle parti verrà rimessa nel polistiirolo nel giusto ordine, quella sequenza che crea un incastro perfetto è assolutamente irriproducibile una seconda volta. La magia dell'unboxing è perduta e gli sfortunati possessori sono condannati ad un eterno rapporto poco amichevole col prodotto.

3. Il prodotto esposto è a disposizione di tutti. Chiunque può guardarlo, ma anche toccarlo, smontarlo, accenderlo. In realtà nessuno prova il prodotto sullo scaffale, anche perchè manca l'alimentazione, ma quando, nel suo futuro utilizzo, si udirà qualche strano rumorino, la presunta causa non starà nel fatto che abbiamo acquistato un prodotto economico e che se volevamo qualcosa di più affidabile dovamo spendere di più. E anche quando la funzione per la quale il prodotto è stato creato non sarà svolta impeccabilmente, non dipenderà da una qualche mancanza del suo utilizzatore. In tutti questi piccoli episodi, non propriamente ascrivibili alla categoria  malfunzionamenti, ci verrà certamente ricordato che "quello" è un prodotto "usato". E' il prodotto che chiunque, nelle lunghe giornate di apertura del negozio, può aver guardato, toccato, utilizzato, manomesso o solo aver piegato lievemente qualcosa all'apparenza insignificante, ma con un inesorabile effetto secondario di tipo degenerativo.

4. Quando decidiamo per l'acquisto, riteniamo che l'oggetto sia effettivamente nuovo e sia stato aperto giusto per essere esposto. Solo quando ci presentiamo alle casse scopriamo che la maggior parte delle volte la confezione è stata aperta provocando una rottura irregolare del cartone e che questo strappo è stato rattoppato con del nastro da pacchi. Naturalmente il prodotto è integro, anche in caso di guasto la garanzia è salva, eppure non appena usciti dal punto vendita le diverse persone che incontreremo, nell'ordine, conoscenti che casualmente sono fuori dal negozio, il vicino di casa che ci apre il portone per aiutarci ad entrare, la moglie di quest'ultimo che incrocianmo sulle scale, i familiari che proprio in quel momento, evento raro, si trovano tutti a casa, tutti poseranno il loro sguardo su quel rattoppo, senza dire nulla ma lasciando a voi la libera interpretazione del loro pensiero. L'autostima è fortemente  a rischio.

5. Capiterà senz'altro di fare bella mostra del nuovo acquisto con gli amici che faranno visita .  E ci sarà senz'altro uno di loro che dirà la frase: "bello, sono stato anche io in quel negozio ma questo modello non l'ho proprio visto". Ed è altrettanto probabile che ci sarà qualcuno della famiglia che proferirà, più o meno  ingenuamente, le parole "si infatti, questo era l'ultimo esposto". Le facce dei presenti assumeranno immediatamente quell'espressione impercettibile eppure inequivocabile che, unito alla parola "ah..", in tutte le culture del mondo sta ad indicare un solo riprovevole pensiero: "io non lo avrei mai preso".  Se a questo imperdonabile errore comunicativo non aggiungiamo prontamente la frase "sono riuscito ottenere un grosso sconto per questo motivo" (peraltro tutti sanno che le grandi catene difficilmente effettuano questo tipo di contrattazione), invece che assumere l'aspetto di scaltri fiutatori di affari,  torneremo ad incarnare perfettamente quello che era stato il primo giudizio silentemente espresso: un perfetto pirla.

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martedì 13 settembre 2011

Asilo republic

Sono le otto di mattina e fa già caldo. E’ quasi la metà di settembre e l’estate si trastulla in maniera adorabile. Accompagno il piccolo al suo secondo giorno di nido. Lo hanno assegnato ad un asilo in centro, quindici minuti a piedi cercando di percorrere le strade meno trafficate. Più avanti proveremo ad andarci in bicicletta, sarà divertente imbacuccarlo a dovere per coprirlo dal freddo, caricarlo dietro nel suo bel seggiolino tecnico, allacciargli le cinture ed il caschetto in tinta con il telaio. A me e a David non piace il caos delle auto in sosta selvaggia davanti alle scuole all’orario di ingresso e uscita, i SUV a motore acceso, i clacson. Anzi, in centro le automobili non ci piacciono per nulla, nemmeno quelle piccole, o quelle con l’autorizzazione del Comune sopra al cruscotto, o quelle che scaricano solo e poi ripartono subito, o quei furgoni così grandi che consegnano continuamente pacchetti così piccoli. Adoriamo vivere in centro ma non amiamo le auto e il veleno che queste ci fanno respirare.
Sono davvero due concetti incompatibili tra di loro?
Comunque andare al nido lo diverte, si troverà bene, fa già dei sorrisi enormi quando intravede le nuove maestre. Il servizio naturalmente è a pagamento e la quota è stabilita in base al reddito. Infatti, sempre in mattinata, mi presento in Comune per ritirare il bollettino di pagamento della retta. Davanti a me c’è la mamma di una bimba che va nello stesso nido. E’ straniera, il fazzoletto le copre il capo e si ricompone elegantemente alla base del suo giovane volto, dove mostra sempre un sorriso compito. Nell’ufficio non c’è molta privacy, l’ambiente è piuttosto familiare, succede nelle città di provincia. Per questo mi capita di ascoltare quello che l’impiegata dice alla ragazza. E’ veloce e subito dopo tocca a me. La sua quota mensile è di cinquanta euro, la mia di quattrocento. Anch’io non dico altro, ringrazio ed esco. Sono contento che quella ragazza usufruisca, come me, di un servizio di buon livello. Il fatto che sia straniera mi fa solo ritenere che ha sicuramente fatto grandi rinunce per essere qui, che di sicuro le piace lavorare e che lo farà anche suo marito, e tutto questo per offrire migliori  opportunità di integrazione e di futuro per i loro figli. Sarei pure orgoglioso di vivere in un Paese dove tutte le sue speranze vengono agevolate, ma il fatto che paghi otto volte in meno della mia quota mi fa pensare che proprio tutto bene non va. Visto che nessuno, nemmeno un single, riuscirebbe a vivere col mio reddito diviso otto, c’è la possibilità che dietro il sacrificio di quella famiglia ci sia un datore di lavoro che non fa tutte le cose in regola. Evade le tasse quando sfrutta il lavoro di famiglie come la loro, gli nega l’assistenza, e fa danno due volte, perché nella mia quota c’è la compensazione dello squilibrio sociale che il sistema ingenera.
E’ davvero così difficile rendere la vita più difficile agli evasori?
Esco e mi avvio a pagare il dovuto. Fuori dalla mia libreria di fiducia trovo una fila enorme di genitori alle prese con questioni “educative”, le scuole hanno appena riaperto i battenti. Un papà che conosco è in coda per ritirare gli ultimi libri delle sue figlie. Ci tiene che inizino con tutti i testi a disposizione. La più grande fa le medie e ne ha in lista diciotto. Chiedo se per caso l’ha iscritta al MIT di Boston, ma pare sia un numero normale e mi dice di tenermi pronto perché più avanti toccherà anche a me e di certo non diminuiranno il prezzo di copertina. Lui spende circa cinquecento euro per entrambe. Mi spiega che solo qualche autore mette i testi a disposizione su internet, ma che il costo per stamparli  e rilegarli non è molto più basso del prezzo di acquisto. Penso che sarebbe molto più semplice far utilizzare ai ragazzi un e-book reader, che tra l’altro si usa anche  l’anno dopo, anche acquistato dai genitori, magari ad un prezzo speciale per un così cospicuo gruppo di acquisto. E poi i testi digitali comprati dalla scuola pubblica e distribuiti agli alunni. Il compenso dell’autore sarebbe sicuramente salvo, quello di tutti gli altri intermediari che ci sono intorno forse meno, ma non è ora di iniziare a scardinare tutti quei centri di interesse che rallentano la modernità e con questa la qualità della nostra vita?
Il mio interlocutore risponde al mio suggerimento  con una domanda, ed è la quarta e per oggi direi che può bastare, devo tornare veloce a casa e correre al lavoro:
“Ma secondo te, quelli là lo sanno che cos’è un e-book?”
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lunedì 12 settembre 2011

Il terribile giro del morto 2011

Questa mattina mentre mi accingevo ad uscire di casa per partecipare alla gara podistica, ho assistito ad uno scambio di pensieri tra il piccolo David, già sveglio alle 8, e Mari, più assonnata ma non meno pronta di spirito. Probabilmente incuriosito dal mio frenetico entrare ed uscire dalle stanze alla ricerca dell'abbigliamento giusto e di altri accessori da inserire nello zaino, lo sguardo del marmocchio si interrogava sul perché di tanta meticolosa preparazione, mentre la mamma era già pronta con la risposta da dargli: "Il papà questa mattina non la passerà con noi. No David, non va a lavorare, è domenica ricordi? E la domenica è il giorno dedicato agli affetti e alla famiglia. Ma lui ha una corsa. La chiamano Il Giro del Morto". Il piccolo, che fino a quel momento aveva seguito a bocca semiaperta quelle parole dal tono sussurrato e, solo in apparenza, dolcemente proferite, mostrava ora un piccolo sussulto, non si sa se stupito dalla paventata scelta di campo paterna oppure dalla lugubrità dell'ultimo nome pronunciato. Per tranquillizzare il nanetto intervenivo allora in sua e mia difesa: "Il nome della gara ha in realtà un significato scherzoso (post del 2009), ma di certo è in assonanza con la sua durezza. Quasi tredici km collinari, tra salite spezza-gambe, discese insidiose, sentieri malconci e sterrati poco ospitali.". Gli occhietti rimanevano spalancati ma le sopracciglia si inarcavano come ad esprimere una seria preoccupazione per la mia incolumità. La mamma riprendeva arguta:"No tesorino, tranquillo. Il tuo papino non corre alcun pericolo, se non la possibilità di qualche crampo o al massimo il rischio che un boccone gli vada di traverso nel rinfresco di fine gara. Sai, lui non può certo mancare, tutti i suoi amici sono lì, ci va ogni anno, e poi ci tiene così tanto". David era decisamente tranquillizzato dalle ultime spiegazioni, per lui assolutamente prive di qualsiasi sarcasmo o velata ironia. Anzi sorrideva con piglio orgoglioso, quasi commosso di avere appena scoperto che il papà che si ritrova è un grandissimo atleta, un uomo incurante dei pericoli, un altruista che gode di immensa considerazione da parte dei suoi amici. Mentre il senso della realtà mi imponeva di stemperare le aspettative che il piccolino stava chiaramente costruendo sulla mia figura, la concentrazione di tante emozioni stampate sul suo viso ed il fatto che ero terribilmente in ritardo mi suggerivano di lasciare tutto così; senza  accentuare l'immagine mitizzata che si era appena materializzata nei suoi occhi, ma senza nemmeno smentire brutalmente quella che in fondo è una legittima aspettativa di tutti i bambini. Anzi, il suo spontaneo orgoglio mi aveva appena dato la carica che mi mancava, l'energia necessaria, lo stimolo a non deluderlo. Uscivo lanciandogli un ultimo sguardo ed un sorriso appena accennato, per non tradire la gravità del sacrificio che dovevo compiere per tutta la famiglia. Alla scena della mia uscita mancava solo una trionfale colonna sonora di sottofondo e un effetto frame al rallentatore. D'altra parte quello del papà è ruolo che, come in un grande film, richiede un discreto sacrificio, una immedesimazione totale, una credibilità continua. E ogni tanto si deve uscire dalla scena per dare più suspence al rientro.


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giovedì 1 settembre 2011

il b&b e l'arte di ospitare

Domenica pomeriggio, la penultima di agosto, siamo nella nostra casa in campagna ancora per qualche giorno di vacanza. Il caldo asfissiante non ha nessuna intenzione di concedere tregue nonostante siano quasi le sei. I muri spessi tengono vivibili le stanze, ma guai a mettere fuori la testa. Scruto dalla finestra come il sole sottomette possente tutto il paesaggio. Cerco con lo sguardo un luogo in cui si senta sollievo, ma anche le ombre degli alberi appaiano sbiadite e tenui. Dalla stradina bianca che risale dalla provinciale prendono forma due figure colorate e ondeggianti. Svanito l'effetto fata morgana il loro avanzare resta oscillante, sono in sella a due biciclette piuttosto cariche, due turisti non proprio da villaggio all inclusive che devono aver letto le lettere b&b verniciate sulle colonne del vecchio cancello. Esco per far vedere che il luogo non è disabitato. Sono Olandesi, due fratelli non proprio giovanissimi, diretti a Roma ed in cerca di una stanza dove fare una doccia e passare la notte. Li accolgo in un inglese inceppato, entro nel ruolo del gestore, continuo ad andare avanti e indietro tra le stanze indeciso se mostrarmi presentissimo o al contrario molto discreto, quasi invisibile. Quando riappaiono lavati e profumati resto solo colpito dal fatto che gli abiti che ora indossano, polo e pantaloni lunghi in jersey, sono assolutamente privi di qualsiasi segno di piega. Questi si che si chiamano viaggiatori! Non so come abbiano fatto ad estrarre l'abito da sera da quelle borse tecniche attaccate alle ruote, ma da questo momento in poi non mi stupisce più nulla delle cose che scopro dei due nordici. Né il fatto che un manager ed un professore universitario alle soglie della pensione abbiano deciso di partire da Amsterdam diretti a Roma per strade panoramiche secondarie o il racconto del loro viaggio che tengono in rete, o il loro serafico buonumore dal naturale contagio.
La mattina mi alzo di buon'ora e mentre gli ospiti caricano ed attrezzano  nuovamente i velocipedi, sono dietro alla penisola della cucina che imbastisco e improvviso una colazione continentale. Le mie uova vanno a ruba, il pane scaldato si accompagna con tutto, dispenso consigli di cucina e di viaggio. E' il piacere dell'accoglienza, è come invitare gli amici a casa, preparare tutto con cura e coccolarli con piccoli particolari e goderne del risultato con la propria famiglia.
I saluti di congedo sono una festa, come se ci si conoscesse da una vita o come se quello fosse l'incontro del secolo. Ripartono e d'un tratto ci accorgiamo che il sole è di nuovo ad incutere timore. Rientriamo in casa, torniamo alla routine vacanziera, decisamente appagati da questa variante di vita, forse una via di fuga nel caso   si voglia scappare dalla prima. Senza muoversi molto, in questo luogo di ospitalità e silenzio, il mondo può in qualsiasi momento venirci a far visita.

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