giovedì 22 dicembre 2011

NATALE IN SARDEGNA. L'arrivo

Atterriamo che ormai è scuro già da diverse ore. Ricordavo che la notte in Sardegna è molto più buia e silenziosa che altrove. Il nostro è l'ultimo volo della giornata. Mentre ci attardiamo a sistemare il piccolo, l'unico bar aperto in aeroporto ha già spento le macchine e alzato le sedie; il personale con le divise in velluto si prepara a rientrare a casa. Sono lontani i mesi estivi della folla vestita a colori accesi e siamo, credo, gli ultimi ad uscire dalle porte girevoli. Fa freddo anche qui, ma il vento delicato che muove i nostri pesanti giubbotti lo rende molto diverso da quello umido di casa. Siamo pur sempre in una città di mare. Usciamo dalle sopraelevate di Olbia molto velocemente. Sulla statale per Cagliari i miei fari non superano il margine dell'asfalto. Scruto oltre ma tutto è impenetrabile e mi dispiace di non poter vedere il paesaggio circostante, selvaggio fino al misterioso, unico e irreplicabile. A volte ne sento il bisogno. Su una piazzola scorgo un'auto ferma e le voci dei miei passeggeri hanno una impercettibile esitazione. Ma nessuno dice nulla, perché non c'è nulla da dire se non, come già detto, che le notti da queste parti non sono le stesse che altrove.
Arriviamo a Nuoro e il suo svincolo periglioso mi ricorda ogni volta un preciso lato del carattere di questa regione. Scorgiamo, ben illuminata, la zona industriale e commerciale, il satellite di speranza della città. Un cantiere poco segnalato recinta i lavori di una enorme rotonda. Ognuna che si realizza diventa, qui, un evento e c'è anche chi continua a dire che i nuoresi non sono capaci di percorrerle. Probabilmente è vero ma anche da noi, in continente, nessuno sa guidare nelle rotonde e di certo ce ne sono di più. Il mio passeggero mi segnala, per tempo, una buca dell'asfalto che è impossibile scorgere da soli. Anche lui ci si imbatte ogni volta.
A parte i lavori la parte di città che attraverso mi sembra uguale, la riconosco. Anche l'albero di Natale all'inizio del corso è impietosamente uguale.
A casa mi sento all' improvviso tutta la stanchezza del viaggio e qualche brivido di febbre. Mi preparo una tazza di latte prima di dormire. È più bianco che altrove e penso alla neve che mi avevano detto avrei trovato e che invece, per fortuna, non c'è. Lo assaporo senza altro aggiungere al suo gusto, buono, decisamente diverso che altrove.
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martedì 6 dicembre 2011

Ruby tuesday

L'appuntamento è per le otto e mezza davanti all'ufficio. Sono un po' in ritardo, mi affretto perché non voglio che sembri abbia qualche esitazione. Il buon Davide è già lì che mi aspetta, stavolta non è per andare a correre come d'abitudine. Niente caffè, non si può ancora. Ci avviamo a piedi, è una giornata di inaspettato sole. Entrati nella struttura camminiamo con passo agile e veloce, facciamo slalom tra le molte persone presenti nel corridoio, la maggior parte piuttosto lente loro malgrado. Le indicazioni ci fanno arrivare alla nostra zona. Alla reception siamo facce nuove, non ci conoscono. "E' la prima volta?", rispondo di si, vorrei motivare, vorrei spiegare che l'ho detto e pensato almeno in un centinaio di occasioni, che ogni volta che parlavo con qualcuno che già lo faceva diventavo immediatamente in sintonia con la sua consuetudine, come fossi anche io un grande sostenitore, ma per il momento da esterno, giusto il tempo di trovare l'occasione per passare a farlo, tanto era già preventivato, quasi come se lo avessi praticamente fatto, solo da formalizzare l'atto finale, il momento vero e proprio, questione di dettagli e poi anche io potevo dire di averlo già fatto, anzi solo lasciandolo intendere, nemmeno sottolineandolo troppo perché non c'è nulla di cui vantarsi. Ma i sorrisi riservati per noi mi fanno desistere dal proferire inutili parole, mi rendo conto che non ce n'è alcun bisogno. La notizia che siano nuovi iscritti si diffonde immediatamente nelle altre stanze e ad ogni passaggio della trafila la sensazione di essere così considerati  fa svanire gli ultimi residui di rimorso. Sono seduto nel corridoio di attesa, leggo uno dei quotidiani a disposizione, vicino a me ci sono facce che non ho mai conosciuto, non tutti si guardano intorno come me, ma ciascun viso assomiglia ad un volto amico. Vengo chiamato, è passato un bel po' di tempo ma mi sembra trascorso pochissimo. Vengo fatto accomodare sul lettino, l'addetta alla mia stanza è poco cordiale, chiedo di utilizzare il braccio sinistro ma si spazientisce. E' la prima che non mi sorride, credo sia nervosa per via del comportamento di qualche sua collega, pochezze, ma in fondo quello è un luogo di lavoro come tanti altri. Il momento vero e proprio trascorre ancora più velocemente. L'addetta nel frattempo è cambiata, questa è di nuovo gentile, mi impedisce di alzarmi nonostante insista e mi porta un succo di frutta, fresco, biologico. Adesso ho quasi fretta di alzarmi, di spostarmi in quell'ambiente che sento già familiare, di dire arrivederci a tutto il personale sorridente e di uscire a testa alta. Alla fine ci concedono di passare in un'altra stanza, mangiamo, riceviamo raccomandazioni, mi siedo perché sento di farlo, ma è solo suggestione, sto benissimo, meglio di quando sono entrato. Siamo di nuovo fuori e si conferma una bella giornata, un vero peccato non andare a correre,  meglio di no oggi. Passeggiamo tranquilli godendoci le vie ormai riscaldate in questo pacifico giorno di sole, il primo da donatori.


venerdì 2 dicembre 2011

La giostra



Sono arrivate le giostre in città. Quest'anno si sono insediate in Piazza Santo Stefano, proprio in centro. Di solito vengono scelti luoghi più decentrati, anche più brutti dal punto di vista urbanistico. E' uno dei motivi, non il solo, per cui le giostre mi hanno sempre ispirato un grande senso di tristezza. Ci sono anche i tendoni scoloriti delle coperture, le insegne sbiadite delle attrazioni, la musica con quel suono metallico, artefatto, poco fedele, che sembra provenire da dischi taroccati e diffusi in un impianto che negli anni ha preso troppa umidità. L'audio, sempre alto, copre il terribile cigolio delle decadenti strutture in ferro, poco zincate e molto arrugginite. Il retro di ogni baracca svela sempre una inquietante magagna: un impianto elettrico provvisorio, tutt'altro che sicuro, qualche bullonatura assente, rattoppi di vario tipo, qualche attrezzo lasciato a terra a caso. Anche le facce dei gestori non mettono allegria, nei loro occhi scuri le istantanee dei luoghi dove sono stati si sono accumulate in ormai troppe lastre sovrapposte. Le giostre mi intristivano anche da bambino, o almeno così mi sembra di ricordare. Era l'evento che avrebbe dovuto rompere la monotonia di quei pomeriggi di provincia,   l'alternativa ad una offerta di divertimento già inesistente, una scusa per restare qualche ora in più fuori casa a scrutare i visi in chiaroscuro ai bordi o riconoscere le solite compagnie in attesa del giro successivo.
Spero che il piccolo non mi chieda mai di essere portato alle giostre, non voglio vedere il l'opaco scintillio della baraccopoli riflesso sul suo viso così curioso di ben altri passatempi. Sono certo che restando io neutrale all'evento non sentirà mai la necessità di partecipare a questo rito di svago che pure resiste al passare del tempo, alla modernità, alla tecnologia. Come se quella nomade carovana diffondesse nei suoi spostamenti di città in città la malinconia come fosse un virus, l'abitudine come fosse una cura, il divertimento come fosse un calmante.

sabato 5 novembre 2011

SimCity

Nel 2012 ad Alessandria si voterà per le elezioni amministrative comunali. I candidati alla carica di sindaco si sono già fatti avanti, ognuno col proprio schieramento, il proprio staff, background, le proposte, la foto che lo ritrae meglio.
In quasi tutte le grandi campagne elettorali, quella di Barack Obama ha fatto scuola, l'uso della rete ha giocato un ruolo molto importante ma dalle nostre parti l'accesso digitale non ha numeri sempre entusiasmanti. Coloro che frequentano il web sono però bravi a distinguere quelli che sfruttano la rete per dare una artefatta immagine di modernità da quelli che credono veramente che il web sia un grande strumento di trasparenza e di diretto collegamento con i cittadini. Di solito i secondi continuano a comunicare attraverso internet anche al termine della campagna elettorale.
In attesa che la competizione entri nella fase più calda e si apprezzino meglio le diverse proposte e programmi, ho dato un occhiata a come i candidati hanno scelto di utilizzare la rete per questa loro avventura.

Rita Rossa.
Oltre ad una massiccia campagna di tipo tradizionale (presenza sui giornali, manifesti), c'è un sito internet dedicato alle elezioni http://www.ritarossasindaco.it/, (con confezione di buon livello), una pagina Facebook ed un canale youtube. Lo staff aggiorna bene i contenuti, tiene nota dei luoghi dove si presenta, riprende e pubblica i suoi interventi, aggiorna l'agenda degli impegni pubblici. Macchina da guerra.

Giovanni Barosini.
Le gigantografie incollate sui palazzi ed in tangenziale sono sfuggite a pochi, ma la presenza in rete è affidata al sito del partito di appartenenza http://www.udcalessandria.it/. Non ho reperito, per ora, nient'altro. E' effettivamente abbastanza fotogenico e si presenta bene anche di persona, probabilmente è anche oratore convincente. Punterà esclusivamente a quello? Immaginifico.

Corrado Parise.
Sito internet dedicato http://www.pariseperalessandria.it/, diversi blog personali attivati su diverse piattaforme. naturalmente pagina Facebook e, unico caso riscontrato, un profilo Twitter attivo e vivace. Anche il sito è piuttosto prolifico: zeppo (fin troppo forse) di idee di programma, sondaggi,  interventi, commenti e, una chicca, avvenimenti locali commentati in ironici video dal gusto satirico-intelettuale. Da seguire.
Mauro Buzzi.
Sito internet dedicato http://alessandriabenecomune.it/ e pagina Facebook (che non si nega nessuno). Il sito però è, a mio avviso, uno dei più efficaci: grafica azzeccata, accesso ai contenuti intuitivo, pochi punti-programma ma ben collocati. Adeguato.

Per gli altri, Claudio Prigione, Renato Kovacic e Giovanni Rattazzo: nessun posizionamento reperito sul web. Latitanti, per ora.

mercoledì 2 novembre 2011

As Novembre goes by

Ogni anno il due novembre recito a memoria una poesia che inizia con "ogni anno il due novembre".
Tutto ha avuto inizio una sera di una quindicina di anni fa. Una grande camerata di caserma, dieci posti branda. All'angolo opposto al mio dormiva Antonio, napoletano dalla testa ai piedi. Quella sera appunto, non so perchè ad Antonio è venuto in mente di citare la poesia "La Livella" di Antonio De Curtis, in arte Totò. La narrazione dura diversi minuti. Si tratta di un testo piuttosto lungo che non va semplicemente ripetuto, ma recitato in modo intenso, interpretato con enfasi. E' scritta rigorosamente in dialetto e lui la conosceva a memoria, l'aveva appresa alle scuole elementari, pare fosse piuttosto in uso dalle sue parti. Dopo quella sera, tutte le successive, dopo che la luce delle camerate veniva spenta e poco prima che suonasse la tromba registrata del Silenzio, io, immancabilmente, dicevo "dai Antonio, fammela un'altra volta". L'intonazione della mia richiesta introduceva il momento più malinconico della giornata e la mia voce assomigliava a quella di Humprey Bogart quando in Casablanca dice "suonala ancora Sam". Il buon Antonio esitava, a volte si faceva pregare cercando di sottrarsi alla richiesta. Ma era tutta una finta, era "moina", perché rifarla piaceva molto anche a lui. C'era un'attimo di pausa, lui si schiariva la gola, faceva ancora una pausa. Tutti i presenti, nell'oscurità assoluta dell'enorme stanzone, rimanevano immobili, religiosamente zitti. L'interpretazione aveva inizio. Le pause della giusta lunghezza, i guizzi obbligatori della voce oppure le brusche interruzioni in alcuni punti esatti della poesia, tutto contribuiva a rendere magico quel decantare senza bisogno di alcun gesto visivo. Terminato il rito nessuno più aggiungeva un commento o una sola parola. Ognuno restava a fare i conti con con le sue incertezze. Con i suoi pensieri dei vent'anni, grezzi e spinosi come le pesanti coperte grige di lana che coprivano i letti ed irritavano l'epidermide.
A distanza di tempo, ad ogni persona che viene da Napoli chiedo se conosce la Livella di Totò. E' il mio metro per misurare la sua partenopeità e il suo amore per il luogo d'origine. A distanza di tempo, interpreto a mio modo la poesia, sdrammatizzo l'argomento della morte che vi è narrato, rivivo la ruvidezza delle mie speranze di ventenne.

mercoledì 26 ottobre 2011

About Facebook

Ieri sera l'argomento di conversation della lezione di inglese era Facebook. Arrivato il mio turno, ho detto che i miei amici scrivono continuamente un sacco di cose stupide. Ripensata in italiano, non è una frase di cui andare orgogliosi. È come dire che ho molti amici sciocchi, ma gli amici sono quelli che uno di solito si sceglie e quindi quelli che ci si merita. In realtà le cose sono un po' diverse. La maggior parte delle persone che ho aggiunto sono lì perché mi dispiaceva dire di no e perché alla fine non è così grave chiamare tutti amici ed averne pure un gran numero. È un fatto insito nel meccanismo del sito, nel significato deviato della parola amico, nel mio modo sicuramente snob di parlare di un luogo virtuale che essendo frequentato da tutti, annichilisce ogni illusione elitaria.
Nei rapporti con le persone sono alla costante ricerca di un arricchimento. È per questo che divento asociale quando ci si imbatte nel classico parlar di niente, oppure in cliché, luoghi comuni o frasi di circostanza. Su Facebook è ancora peggio, perché di solito la sequela di appelli accorati da leggere, di assurdi link da aprire, di patetici video da scaricare e di nostalgici epiteti da commentare, oltre a non arricchirmi, mi fa perdere un sacco di tempo. La teacher invece è entusiasta del social network. Vivendo in un paese straniero è il suo unico modo per tenersi in contatto con famiglia, amici, persone care, per non sentirsi isolata. Neanche io voglio sentirmi isolato, continuerò a visitare Facebook, saltellare tra gli aggiornamenti, mandare gli auguri agli amici che non vedo di persona, sorridere degli appelli improbabili, delle situazioni sentimentali complicate e degli stati d'animo perturbati. Cercando di accorgermi del tempo che scorre, uscire e dedicarmi a qualcuna delle altre inutilità quotidiane.

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mercoledì 19 ottobre 2011

Break Different

Lo Starbucks Coffee non sbarcherà mai ad Alessandria, ma adesso non ne abbiamo più bisogno. Certo, con la nota catena di bar potevamo sentirci parte di una grande comunità, seduti a sorseggiare il caffè lungo nel bicchierone di carta plastificata, col nostro computer portatile in navigazione internet, quell'aria da eterno viaggiatore, eterno studente, eterno utopico sognatore. Immersi nei nostri mille pensieri, nel capoluogo del basso piemonte così come a San Francisco oppure ad Hong Kong.
E invece tre ragazzi di queste parti hanno inventato l'IBar. Lo hanno disegnato con linee moderne, arredi essenziali, una grande vetrata che si affaccia su una strada di transito, di fronte ai giardini pubblici della stazione ferroviaria. Il concetto di viaggio c'è sempre. E anche vicino a molti uffici importanti della città, un posto dove è piacevole trascorrere la sosta veloce o la pausa pranzo.
Si sono ispirati, sin dal nome, alla filosofia Apple: pochi colori, il bianco domina; alcune frasi di Steve Jobs trasferite sulle pareti; una serie di Ipad sui tavoli e sui banconi ad uso gratuito dei clienti; la rete wi-fi. Eppure l'Ibar (sottotitolo Innovation bar and relationship) ha una linea nuova, merita di fare successo o di diventare, come i tre soci si augurano, l'inizio di una nuova catena commerciale. E poi in fatto di idee originali sembra che pure il grande Picasso un giorno abbia detto che i bravi artisti copiano, mentre i grandi artisti rubano.
Mi assicurano che di sera, con il deejay che diffonde le sonorità adatte,  l'atmosfera cambia completamente e le innovative luci d'ambiente stravolgano l'effetto diurno. Mi riprometto di provare l'esperienza. Nell'attesa mi gusto il caffè in tazzina: rigorosamente nostrano ed eccezionalmente buono.
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venerdì 7 ottobre 2011

In my shoes

Eccole: immacolate e brillanti, col profumo di plastica e gomma di buona qualità, con il fondo ancora lucido, tutte le scritte stampate in modo intenso, il laccio bianco candido e gli inserti colorati in evidenza, la forma e la silhouette intatte. Sono appena arrivate a casa e si apprestano a sostituire le vecchie gloriose scarpe da running che saranno costrette ad uscire e abbandonare il tetto che per quasi due anni le ha custodite. Da tempo mi sono imposto di evitare l'accumulo di oggetti non propriamente necessari. Quelli che dici "ma non si sa mai, possono sempre tornare utili", o "magari un giorno li vai a ricercare", oppure "poi qualcuno ne ha bisogno e te li chiede",  "teniamoli lì di riserva" e così via. Niente di tutto questo, prima ancora di riflettere sulle ipotesi di una futura utilità me ne libero in modo irreversibile. Non mi affeziono mai alle cose materiali e questo rende facile il distacco. Per questo paio di scarpe però è diverso e provo un piccolo fastidio ad abbandonarle al loro destino di rottame. Mi hanno assistito in un sacco di corse sofferenti, calzarle ed allacciarle con cura è stato il piccolo rito propiziatorio prima di ogni gara, riporle nello scaffale del buio ripostiglio un modo per farle riposare dopo lo sforzo sperando di ritrovarle più cariche al successivo. Si, per la scarpa è diverso. Vale un po' di più delle altre cose di cui ci circondiamo. In inglese si dice "nelle sue scarpe" per dire di stare al posto di qual'un altro; "la salute e un paio di scarpe nuove" è un proverbio che ricorda l'essenziale che dovrebbe stare davvero a cuore.
Forse imbustandole per l'indifferenziata farò finta di dimenticarmele in qualche angolo oppure appoggerò anche queste fuori dal portone aspettando che il solito misterioso passante le porti via soddisfatto. Le mie scarpe vecchie, disfatte ed impolverate, mi chiedono mestamente di poter continuare a dire la loro.

giovedì 6 ottobre 2011

Stay Jobs

Solo ieri sera avevo chiuso il libro "Nella testa di Steve Jobs" a pagina 185 prima di addormentarmi. Avevo deciso di leggerlo quando quasi due mesi fa il CEO aveva lasciato la sua Apple. Pensai volesse uscire di scena per permettere alla sua creatura di andare avanti accompagnata da qualcun'altro così da sopravvivergli e farlo sopravvivere. Sono entrato nel suo mondo fatto di meticolosità, eccellenza, fiuto, genialità. Un giorno parlerò al mio piccolo citando il suo leggendario discorso ai giovani della Stanford University. Bisogna seguire le proprie intuizioni e il proprio cuore; il tempo a nostra disposizione è troppo limitato per sprecarlo vivendo la vita di qualcun'altro. E il suo tempo è stato ancora più breve e nonostante questo la sua esistenza è bastata a lasciare un così grande segno per tutti. Lo hanno chiamato genio, lungimirante, visionario. Non ha anticipato il futuro, lo ha solo disegnato secondo la sua visione, non secondo i bisogni della massa. Non credeva ai sondaggi, la gente non sa quello di cui ha bisogno semplicemente perché non è stato ancora costruito, quindi è inutile chiederglielo. Non ha dato prodotti di consumo ma oggetti pensati per la felicità del loro utilizzatore. Non per complicargli le cose ma per semplificare il suo interagire con la realtà. Una missione, una necessità dell'intelletto che è riuscita anche a fregarsene del business a tutti i costi. Una unicità così magnifica che da questa notte non esiste più, e che invece resterà per sempre.
RIP

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mercoledì 28 settembre 2011

Cinque buoni motivi per..

Martedì tardo pomeriggio Torno dal lavoro con tutta la voglia di rilassarmi nel modo più statico immaginabile. Ma una emergenza domestica mi attende e su delega ad personam da parte della Mari, mi ritrovo catapultato da Media World, reparto aspirapolveri. Dopo una verifica delle caratteristiche tecniche e della fascia di prezzo, individuato il modello che mi sembra adatto alle nostre esigenze, chiamo l'addetto al reparto per chiedere qualche informazione aggiuntiva. Il giovane dall'aria competente conferma il fatto che la mia scelta è ricaduta proprio sul modello col miglior rapporto qualità prezzo "che occhio, si vede che lei se ne intende di cose tecniche" è il suo sottointeso commento, prima lezione del corso rapido da venditore di elettrodomestici. Soddisfatto dal rinforzo positivo appena ricevuto chiedo di portare via l'oggetto ma, ahime, mi dice che è appena terminato "quel modello è andato a proprio ruba" e ancora "se vuole.. le posso dare quello esposto". Ecco, ci sono circostanze e situazioni nelle quali si commettono errori che mai e poi mai avremmo immaginato di poter fare. Ma succede anche ai migliori. Portato a casa l'oggetto e fieramente mostrato alla consorte, ha avuto inizio il mio calvario, personale e spirituale. Nella fase di elaborazione del nefasto evento ho deciso di scrivere, a memoria ed utilità futura, i miei cinque buoni motivi per cui non si dovrebbe acquistare mai, e sottolineo mai, l'ultimo oggetto esposto sugli scaffali:

 1. Qualcosa manca sempre. L'elenco dei componenti che dovremmo trovare nella scatola di solito è indicato nella documentazione del prodotto ma non sempre tutte le parti incluse sono specificate con chiarezza. Più spesso le mirabolanti fotografie impresse sulla confezione, quelle che servono ad attrarre il cliente, ritraggono l'oggetto in modo non realistico, aggiungono pose e componenti che non solo non si trovano nella confezione, ma addirittura non sono stati ancora inventati. Il dubbio di non avere tutte le parti, anche quelle che mai e poi mai avremo occasione di utilizzare, ci accompagnerà per tutta la vita.

2. Qualcuno lo ha aperto al posto nostro. Esistono appositi studi su come rendere il prodotto familiare già a partire dall'apertura della scatola e dall'estrazione dei pezzi. E' il cosiddetto unboxing, molte aziende vi fanno ricorso. L'ordine non è casuale ma studiato perchè le parti si presentino con un preciso ordine: il cavo di alimentazione, subito dopo il corpo elettrico dove inserirlo, poi il manico da agganciare al corpo elettrico estratto poco prima, e così via, tutto per rendere user friendly l'oggetto. Ma nulla di tutto accadrà dopo il nostro acquisto disgraziato. Quando il commesso lo riporrà alla bene e meglio nella scatola per farcelo portare alle casse, l'ordine dei pezzi sarà assolutamente casuale, nessuna delle parti verrà rimessa nel polistiirolo nel giusto ordine, quella sequenza che crea un incastro perfetto è assolutamente irriproducibile una seconda volta. La magia dell'unboxing è perduta e gli sfortunati possessori sono condannati ad un eterno rapporto poco amichevole col prodotto.

3. Il prodotto esposto è a disposizione di tutti. Chiunque può guardarlo, ma anche toccarlo, smontarlo, accenderlo. In realtà nessuno prova il prodotto sullo scaffale, anche perchè manca l'alimentazione, ma quando, nel suo futuro utilizzo, si udirà qualche strano rumorino, la presunta causa non starà nel fatto che abbiamo acquistato un prodotto economico e che se volevamo qualcosa di più affidabile dovamo spendere di più. E anche quando la funzione per la quale il prodotto è stato creato non sarà svolta impeccabilmente, non dipenderà da una qualche mancanza del suo utilizzatore. In tutti questi piccoli episodi, non propriamente ascrivibili alla categoria  malfunzionamenti, ci verrà certamente ricordato che "quello" è un prodotto "usato". E' il prodotto che chiunque, nelle lunghe giornate di apertura del negozio, può aver guardato, toccato, utilizzato, manomesso o solo aver piegato lievemente qualcosa all'apparenza insignificante, ma con un inesorabile effetto secondario di tipo degenerativo.

4. Quando decidiamo per l'acquisto, riteniamo che l'oggetto sia effettivamente nuovo e sia stato aperto giusto per essere esposto. Solo quando ci presentiamo alle casse scopriamo che la maggior parte delle volte la confezione è stata aperta provocando una rottura irregolare del cartone e che questo strappo è stato rattoppato con del nastro da pacchi. Naturalmente il prodotto è integro, anche in caso di guasto la garanzia è salva, eppure non appena usciti dal punto vendita le diverse persone che incontreremo, nell'ordine, conoscenti che casualmente sono fuori dal negozio, il vicino di casa che ci apre il portone per aiutarci ad entrare, la moglie di quest'ultimo che incrocianmo sulle scale, i familiari che proprio in quel momento, evento raro, si trovano tutti a casa, tutti poseranno il loro sguardo su quel rattoppo, senza dire nulla ma lasciando a voi la libera interpretazione del loro pensiero. L'autostima è fortemente  a rischio.

5. Capiterà senz'altro di fare bella mostra del nuovo acquisto con gli amici che faranno visita .  E ci sarà senz'altro uno di loro che dirà la frase: "bello, sono stato anche io in quel negozio ma questo modello non l'ho proprio visto". Ed è altrettanto probabile che ci sarà qualcuno della famiglia che proferirà, più o meno  ingenuamente, le parole "si infatti, questo era l'ultimo esposto". Le facce dei presenti assumeranno immediatamente quell'espressione impercettibile eppure inequivocabile che, unito alla parola "ah..", in tutte le culture del mondo sta ad indicare un solo riprovevole pensiero: "io non lo avrei mai preso".  Se a questo imperdonabile errore comunicativo non aggiungiamo prontamente la frase "sono riuscito ottenere un grosso sconto per questo motivo" (peraltro tutti sanno che le grandi catene difficilmente effettuano questo tipo di contrattazione), invece che assumere l'aspetto di scaltri fiutatori di affari,  torneremo ad incarnare perfettamente quello che era stato il primo giudizio silentemente espresso: un perfetto pirla.

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martedì 13 settembre 2011

Asilo republic

Sono le otto di mattina e fa già caldo. E’ quasi la metà di settembre e l’estate si trastulla in maniera adorabile. Accompagno il piccolo al suo secondo giorno di nido. Lo hanno assegnato ad un asilo in centro, quindici minuti a piedi cercando di percorrere le strade meno trafficate. Più avanti proveremo ad andarci in bicicletta, sarà divertente imbacuccarlo a dovere per coprirlo dal freddo, caricarlo dietro nel suo bel seggiolino tecnico, allacciargli le cinture ed il caschetto in tinta con il telaio. A me e a David non piace il caos delle auto in sosta selvaggia davanti alle scuole all’orario di ingresso e uscita, i SUV a motore acceso, i clacson. Anzi, in centro le automobili non ci piacciono per nulla, nemmeno quelle piccole, o quelle con l’autorizzazione del Comune sopra al cruscotto, o quelle che scaricano solo e poi ripartono subito, o quei furgoni così grandi che consegnano continuamente pacchetti così piccoli. Adoriamo vivere in centro ma non amiamo le auto e il veleno che queste ci fanno respirare.
Sono davvero due concetti incompatibili tra di loro?
Comunque andare al nido lo diverte, si troverà bene, fa già dei sorrisi enormi quando intravede le nuove maestre. Il servizio naturalmente è a pagamento e la quota è stabilita in base al reddito. Infatti, sempre in mattinata, mi presento in Comune per ritirare il bollettino di pagamento della retta. Davanti a me c’è la mamma di una bimba che va nello stesso nido. E’ straniera, il fazzoletto le copre il capo e si ricompone elegantemente alla base del suo giovane volto, dove mostra sempre un sorriso compito. Nell’ufficio non c’è molta privacy, l’ambiente è piuttosto familiare, succede nelle città di provincia. Per questo mi capita di ascoltare quello che l’impiegata dice alla ragazza. E’ veloce e subito dopo tocca a me. La sua quota mensile è di cinquanta euro, la mia di quattrocento. Anch’io non dico altro, ringrazio ed esco. Sono contento che quella ragazza usufruisca, come me, di un servizio di buon livello. Il fatto che sia straniera mi fa solo ritenere che ha sicuramente fatto grandi rinunce per essere qui, che di sicuro le piace lavorare e che lo farà anche suo marito, e tutto questo per offrire migliori  opportunità di integrazione e di futuro per i loro figli. Sarei pure orgoglioso di vivere in un Paese dove tutte le sue speranze vengono agevolate, ma il fatto che paghi otto volte in meno della mia quota mi fa pensare che proprio tutto bene non va. Visto che nessuno, nemmeno un single, riuscirebbe a vivere col mio reddito diviso otto, c’è la possibilità che dietro il sacrificio di quella famiglia ci sia un datore di lavoro che non fa tutte le cose in regola. Evade le tasse quando sfrutta il lavoro di famiglie come la loro, gli nega l’assistenza, e fa danno due volte, perché nella mia quota c’è la compensazione dello squilibrio sociale che il sistema ingenera.
E’ davvero così difficile rendere la vita più difficile agli evasori?
Esco e mi avvio a pagare il dovuto. Fuori dalla mia libreria di fiducia trovo una fila enorme di genitori alle prese con questioni “educative”, le scuole hanno appena riaperto i battenti. Un papà che conosco è in coda per ritirare gli ultimi libri delle sue figlie. Ci tiene che inizino con tutti i testi a disposizione. La più grande fa le medie e ne ha in lista diciotto. Chiedo se per caso l’ha iscritta al MIT di Boston, ma pare sia un numero normale e mi dice di tenermi pronto perché più avanti toccherà anche a me e di certo non diminuiranno il prezzo di copertina. Lui spende circa cinquecento euro per entrambe. Mi spiega che solo qualche autore mette i testi a disposizione su internet, ma che il costo per stamparli  e rilegarli non è molto più basso del prezzo di acquisto. Penso che sarebbe molto più semplice far utilizzare ai ragazzi un e-book reader, che tra l’altro si usa anche  l’anno dopo, anche acquistato dai genitori, magari ad un prezzo speciale per un così cospicuo gruppo di acquisto. E poi i testi digitali comprati dalla scuola pubblica e distribuiti agli alunni. Il compenso dell’autore sarebbe sicuramente salvo, quello di tutti gli altri intermediari che ci sono intorno forse meno, ma non è ora di iniziare a scardinare tutti quei centri di interesse che rallentano la modernità e con questa la qualità della nostra vita?
Il mio interlocutore risponde al mio suggerimento  con una domanda, ed è la quarta e per oggi direi che può bastare, devo tornare veloce a casa e correre al lavoro:
“Ma secondo te, quelli là lo sanno che cos’è un e-book?”
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lunedì 12 settembre 2011

Il terribile giro del morto 2011

Questa mattina mentre mi accingevo ad uscire di casa per partecipare alla gara podistica, ho assistito ad uno scambio di pensieri tra il piccolo David, già sveglio alle 8, e Mari, più assonnata ma non meno pronta di spirito. Probabilmente incuriosito dal mio frenetico entrare ed uscire dalle stanze alla ricerca dell'abbigliamento giusto e di altri accessori da inserire nello zaino, lo sguardo del marmocchio si interrogava sul perché di tanta meticolosa preparazione, mentre la mamma era già pronta con la risposta da dargli: "Il papà questa mattina non la passerà con noi. No David, non va a lavorare, è domenica ricordi? E la domenica è il giorno dedicato agli affetti e alla famiglia. Ma lui ha una corsa. La chiamano Il Giro del Morto". Il piccolo, che fino a quel momento aveva seguito a bocca semiaperta quelle parole dal tono sussurrato e, solo in apparenza, dolcemente proferite, mostrava ora un piccolo sussulto, non si sa se stupito dalla paventata scelta di campo paterna oppure dalla lugubrità dell'ultimo nome pronunciato. Per tranquillizzare il nanetto intervenivo allora in sua e mia difesa: "Il nome della gara ha in realtà un significato scherzoso (post del 2009), ma di certo è in assonanza con la sua durezza. Quasi tredici km collinari, tra salite spezza-gambe, discese insidiose, sentieri malconci e sterrati poco ospitali.". Gli occhietti rimanevano spalancati ma le sopracciglia si inarcavano come ad esprimere una seria preoccupazione per la mia incolumità. La mamma riprendeva arguta:"No tesorino, tranquillo. Il tuo papino non corre alcun pericolo, se non la possibilità di qualche crampo o al massimo il rischio che un boccone gli vada di traverso nel rinfresco di fine gara. Sai, lui non può certo mancare, tutti i suoi amici sono lì, ci va ogni anno, e poi ci tiene così tanto". David era decisamente tranquillizzato dalle ultime spiegazioni, per lui assolutamente prive di qualsiasi sarcasmo o velata ironia. Anzi sorrideva con piglio orgoglioso, quasi commosso di avere appena scoperto che il papà che si ritrova è un grandissimo atleta, un uomo incurante dei pericoli, un altruista che gode di immensa considerazione da parte dei suoi amici. Mentre il senso della realtà mi imponeva di stemperare le aspettative che il piccolino stava chiaramente costruendo sulla mia figura, la concentrazione di tante emozioni stampate sul suo viso ed il fatto che ero terribilmente in ritardo mi suggerivano di lasciare tutto così; senza  accentuare l'immagine mitizzata che si era appena materializzata nei suoi occhi, ma senza nemmeno smentire brutalmente quella che in fondo è una legittima aspettativa di tutti i bambini. Anzi, il suo spontaneo orgoglio mi aveva appena dato la carica che mi mancava, l'energia necessaria, lo stimolo a non deluderlo. Uscivo lanciandogli un ultimo sguardo ed un sorriso appena accennato, per non tradire la gravità del sacrificio che dovevo compiere per tutta la famiglia. Alla scena della mia uscita mancava solo una trionfale colonna sonora di sottofondo e un effetto frame al rallentatore. D'altra parte quello del papà è ruolo che, come in un grande film, richiede un discreto sacrificio, una immedesimazione totale, una credibilità continua. E ogni tanto si deve uscire dalla scena per dare più suspence al rientro.


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giovedì 1 settembre 2011

il b&b e l'arte di ospitare

Domenica pomeriggio, la penultima di agosto, siamo nella nostra casa in campagna ancora per qualche giorno di vacanza. Il caldo asfissiante non ha nessuna intenzione di concedere tregue nonostante siano quasi le sei. I muri spessi tengono vivibili le stanze, ma guai a mettere fuori la testa. Scruto dalla finestra come il sole sottomette possente tutto il paesaggio. Cerco con lo sguardo un luogo in cui si senta sollievo, ma anche le ombre degli alberi appaiano sbiadite e tenui. Dalla stradina bianca che risale dalla provinciale prendono forma due figure colorate e ondeggianti. Svanito l'effetto fata morgana il loro avanzare resta oscillante, sono in sella a due biciclette piuttosto cariche, due turisti non proprio da villaggio all inclusive che devono aver letto le lettere b&b verniciate sulle colonne del vecchio cancello. Esco per far vedere che il luogo non è disabitato. Sono Olandesi, due fratelli non proprio giovanissimi, diretti a Roma ed in cerca di una stanza dove fare una doccia e passare la notte. Li accolgo in un inglese inceppato, entro nel ruolo del gestore, continuo ad andare avanti e indietro tra le stanze indeciso se mostrarmi presentissimo o al contrario molto discreto, quasi invisibile. Quando riappaiono lavati e profumati resto solo colpito dal fatto che gli abiti che ora indossano, polo e pantaloni lunghi in jersey, sono assolutamente privi di qualsiasi segno di piega. Questi si che si chiamano viaggiatori! Non so come abbiano fatto ad estrarre l'abito da sera da quelle borse tecniche attaccate alle ruote, ma da questo momento in poi non mi stupisce più nulla delle cose che scopro dei due nordici. Né il fatto che un manager ed un professore universitario alle soglie della pensione abbiano deciso di partire da Amsterdam diretti a Roma per strade panoramiche secondarie o il racconto del loro viaggio che tengono in rete, o il loro serafico buonumore dal naturale contagio.
La mattina mi alzo di buon'ora e mentre gli ospiti caricano ed attrezzano  nuovamente i velocipedi, sono dietro alla penisola della cucina che imbastisco e improvviso una colazione continentale. Le mie uova vanno a ruba, il pane scaldato si accompagna con tutto, dispenso consigli di cucina e di viaggio. E' il piacere dell'accoglienza, è come invitare gli amici a casa, preparare tutto con cura e coccolarli con piccoli particolari e goderne del risultato con la propria famiglia.
I saluti di congedo sono una festa, come se ci si conoscesse da una vita o come se quello fosse l'incontro del secolo. Ripartono e d'un tratto ci accorgiamo che il sole è di nuovo ad incutere timore. Rientriamo in casa, torniamo alla routine vacanziera, decisamente appagati da questa variante di vita, forse una via di fuga nel caso   si voglia scappare dalla prima. Senza muoversi molto, in questo luogo di ospitalità e silenzio, il mondo può in qualsiasi momento venirci a far visita.

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domenica 7 agosto 2011

L'uomo senza volto

Tutta questa strana e misteriosa vicenda è iniziata tre anni fa. Ricordo che dovevo sostituire il mio vecchio materasso matrimoniale e prenotai telefonicamente il servizio di smaltimento per farlo prelevare direttamente da loro. La sera prima, con diverse ardue manovre, lo portai fuori dalla camera, lo feci scivolare per le scale e una volta fuori dal portone lo issai contro il muro sul marciapiede pronto per il ritiro. La mattina successiva il telefono squillò sul comodino. Risposi assonnato all'operaio con sottofondo di camion acceso. Mi chiedeva scocciato di portare giù il materasso e ribadiva che il ritiro viene fatto solo in strada, non dentro casa. Misi giù e mi affacciai direttamente alla finestra per scusarmi e dire che probabilmente qualcuno che ne aveva un urgente bisogno lo aveva anticipato.

L'episodio poteva tranquillamente cadere nel dimenticatoio se non fosse che, a qualche mese di distanza, decisi di disfarmi di un paio di scarpe piuttosto stravaganti che in una certa fase della mia vita avevo incredibilmente acquistato e pure indossato. Invece di buttarle nel bidone però, forse preso dalla nostalgia di qualche indicibile ricordo evocato dalle vecchie compagne di camminata, le riposi con cura, come esposte in una vetrina, fuori dal portone accanto ai citofoni. Al mio rientro a casa le scarpe erano scomparse. Poi è stata la volta di un curioso cappello preso in una gita, di un vecchio ferro da stiro che usavo nei viaggi, di alcuni cd musicali che avevo doppi e con incluso un vetusto lettore portatile per ascoltarli,  poi un ombrellino stile liberty, tra l'altro rotto, acquistato in un mercatino, infine alcuni libri che non mi dicevano più nulla e che consideravo orridi, mentre invece avevo comprato e letto entusiasta anni addietro.
Ho raccontato la cosa ad un vicino e anche lui ha riposto in strada un suo elettrodomestico che non usava più insieme ad alcuni libri. Queste cose non sono mai state ritirate da nessuno, ma non avevo bisogno di questa prova per comprendere quella che inizialmente era solo una sensazione. Esiste una persona che, per qualche oscura ragione, indossa cose che non indosserei mai più, nemmeno fossi nudo, legge cose che nemmeno più sfoglierei, si circonda di oggetti che non mi dicono più nulla, fa viaggi in posti che non ricordo con piacere. E dorme anche su un materasso che ho voluto buttare e dimenticare.
Difficile dire chi è ed il perché di tutto ciò. C'è chi è capace a rimuovere i ricordi non graditi in maniera inconscia e permanente, chi riesce ad assimilarli e ad accettarli in modo costruttivo e proficuo, chi lotta con loro per tutta la vita. E poi c'è qualcuno che, più sbrigativo e svogliato, li lascia semplicemente per strada, fuori dal portone di casa, in attesa che qualche misterioso sconosciuto senza volto li porti via col rischio di farli rivivere altrove.



Ho tentato di fotografare, in occasione dell'ultimo deposito incustodito, l'ineffabile personaggio. Mi è riuscito solo in parte. Inutile dire che una volta uscito in strada lui era già sparito, come dileguato nel nulla.

venerdì 10 giugno 2011

Pezzi di carta

Il piccolo David è un grande osservatore. Ho notato che assimila e cerca di replicare, a modo suo, alcuni gesti che vede fare a me. Quando sono con lui sto spesso al telefono oppure scrivo qualche mail o consulto internet. Ecco che quando il bimbo si avvicina ad un cellulare o ad una tastiera e un monitor ne rimane incantato, cerca intrepidamente di raggiungere l'oggetto elettronico e non esiste nulla capace di interessarlo di più in quel momento. Poiché temo che tutto questo fa già parte dell'imprinting dei suoi interessi futuri, ho deciso di farmi vedere più spesso mentre leggo un libro tradizionale, oppure mentre scrivo con carta e penna apparendo esageratamente concentrato e rapito da quei pensieri che si vogliono tramutare in segni. Per tutta risposta al mio subliminale stimolo, l'erede, quando avvicina una rivista o un giornale vi si avvinghia con energia ed inizia a distruggere minuziosamente tutte le pagine. Separa prima il formato intero in due o tre parti principali all'altezza della rilegatura, poi spezza le pagine singole e ne fa, piuttosto divertito, diverse strisce irregolari e ancora queste in strappi più piccoli.

Il suo gioco mi fa pensare ad alcune curiose coincidenze. Qualche giorno fa ho acquistato e iniziato a leggere il mio primo ebook. Ho sempre pensato che nessun apparecchio avrebbe mai potuto sostituire la sensazione di sfogliare un libro classico, il rumore della carta in base alla sua qualità, i segni del tempo, quelli lasciati dal lettore e così via. In parte la penso ancora così, però ho scoperto che questo riesco a leggerlo praticamente ovunque appena ho alcuni minuti liberi, anche la sera a letto senza accendere la luce del comodino. Poi posso reperire il significato di un termine semplicemente sfiorandolo col polpastrello o ricercare una frase che mi ha colpito anche se ne ho perso da molte pagine il segno. Non so se sarà la fine del libro ad inchiostro, però credo che personalmente lo farò ancora; si dice che cambiare idea è segno di intelligenza.
La seconda coincidenza è il titolo che ho comprato: Carta straccia, di Giampaolo Pansa. E' un saggio nel quale l'autore spara a zero sui principali giornali italiani e su molti loro blasonati direttori e rampanti giornalisti, ma il titolo può anche essere letto, in senso più profetico, come la fine della stampa nella maniera in cui la conosciamo ora.
Intanto David ha terminato di sminuzzare la mia rivista colorata e guarda i brandelli ancora non del tutto soddisfatto. Il futuro è tutto nelle sue piccole e distruttrici mani.

sabato 14 maggio 2011

Slow daddy

David ha compiuto cinque mesi e io ho deciso di prendermi una pausa dal lavoro per trascorrere un po‘ di tempo con lui. Le nostre mattinate sono lente, ci prendiamo tutto il tempo che serve per fare le cose. Ci sistemiamo con cura chiacchierando in modo sussurrato, adora quando ripeto le frasi dal suono dolce e allegro. La mia figura è sempre di fronte e mi piace pensare che questo lo rassicuri. Poi ride per cose che sa solo lui, asseconda i movimenti e i gesti che gli faccio fare, sa ormai l‘ordine di quei riti quotidiani che ci porteranno fino al momento in cui siamo perfettamente pronti ad uscire. Si apre la porta ed il suo viso si accende. Mentre passeggiamo lo sguardo è ipnotizzato da tutto ciò che passa ai suoi lati e nei miei occhi. Per nessuna immagine si fa trovare distratto: la facciata di un palazzo, uno scorcio di cielo, il profilo e le ombre veloci dei passanti, il controsoffitto illuminato di un negozio, le grandi pagine del giornale che sfoglio seduto davanti ad un caffè, lungo e anche questo molto, molto lento. Poi si addormenta e la nostra mattinata prosegue comunque, con lo stesso ritmo di prima: un vicolo nuovo da esplorare, un giro in libreria, dal panettiere, in un alimentare. Nel suo sonno incantato la crescita della sua mente e nel suo risveglio stralunato un‘altra movenza, sempre lenta, del suo papà innamorato.


sabato 15 gennaio 2011

La finestra sul cortile

Una distorsione alla caviglia, notte di ghiaccio e dolore, poi lo sforzo fino al pronto soccorso. L'ortopedico di poche parole, apparentemente scazzato, rientra perfettamente nel cliché della situazione assolutamente poco originale. Bloccato in casa e oggi anche rabbioso. Mi immaginavo come il protagonista del film di Hitchock, che nella sua permanenza forzata è raggiunto da un'avventura mozzafiato. Invece essere ad una rampa di scale dal mondo è solo un pò più che deprimente. La stessa energia che ho messo nella caparbietà del farmi male correndo su un pallone, agisce ora in senso contrario e mi svuota di ogni impulso. Tornare alle mie attività quotidiane o volare per il funerale della nonna Vittoria. Sono fermo ed incapace di trovare una reazione che allevi la mia angoscia. Penso anche alla Sua immobilità, quella degli ultimi anni, alla noia assurda dei giorni tutti uguali in quella grande luminosa stanza che da sul cortile alberato. Uno dopo l'altro chiedendosi se ne seguirà ancora uno, e dopo questo se ancora un'altro oppure no. Novantanove da poco, ora spostandosi dal letto alla sedia, ora facendosi sorprendere da una visita, evento sempre troppo breve e troppo violento. Quando tornerò a trovarla forse passeggerò da solo fino al piccolo cimitero, ritrovando percorsi nei ricordi da bambino, i racconti e le canzoni di nonna, che è sempre stata vecchia, le tante notti nel suo lettone, dove è sempre stata vedova, tutte le sue apprensioni e tutti i suoi brontolii. Dove è sempre stato il suo modo di amare. Ciao.